I diari di viaggio di Carla Polastro

DIARIO DI VIAGGIO


ARGENTINA – GENNAIO 2003




“... Ma le donne di Plaza de Mayo non hanno permesso che avessero un mondo del genere [dove chiunque altro fosse sparito], insinuandosi su di loro [i generali argentini] settimana dopo settimana. Figure strane, fantasmi alla ricerca di fantasmi. Hanno fatto tutto ciò come protesta politica, o pensavano che i loro mariti e figli potessero realmente essere riconosciuti e resi loro sani e salvi? Lo pensano ancora?

Non avevano nulla in cui sperare, camminavano in circolo, non dicevano niente, e così facendo hanno restituito molto di quello che era stato portato via all'Argentina.”


Roger Rosenblatt

Gennaio 1984



Questo diario di viaggio è dedicato a Juana Maria Armellín, desaparecida italo-argentina, e a suo fratello Roberto, che per anni e anni non ha smesso di sperare in un suo (im)possibile ritorno e di lottare perché la verità – per quanto indicibilmente dolorosa - venisse a galla. Vi voglio bene, hermanos.



Questo in Argentina è per me una sorta di sentimental journey, sulle tracce del mio nonno paterno, Carlo Polastro, che da giovane faceva il marinaio (sì, esistono marinai piemontesi!). Arrivò a Buenos Aires per la prima volta alla fine dell'Ottocento e se ne innamorò subito. Lo vorrei ora come guida, anche se credo faticherebbe a riconoscere in questa metropoli di oltre 10 milioni di abitanti la città che aveva tanto amato più di un secolo fa. Città dove si sentiva a casa, grazie alla presenza di numerosissimi immigrati italiani (molti dei quali provenienti dal Piemonte e dalla Liguria) e per la quale ha nutrito per tutta la vita una struggente nostalgia.



Sabato 11/domenica 12 gennaio 2003:


Il viaggio non è iniziato sotto i migliori auspici. Per un problema all'impianto elettrico del vecchio Boeing 747 delle Aerolineas Argentinas, decolliamo da Fiumicino con due ore di ritardo, a mezzanotte e mezza passata (e noi siamo già “in ballo” dalle 14!). Per allungare ulteriormente le cose, il volo fa scalo a San Paolo del Brasile, dove arriviamo dopo 12 ore di volo. Possiamo almeno sgranchirci un po' le gambe, facendo due passi nel lugubre aeroporto della città brasiliana, reso ancora più triste dal cielo uniformemente grigio.

Dopo poco più di un'ora ripartiamo verso la nostra destinazione finale, dove atterriamo alle 12.30. In solo mezz'ora passiamo il controllo passaporti e recuperiamo i bagagli. Usciti indenni dalla dogana, ci aspetta il pullmino che ci porterà all'Hotel Elevage, nella zona centrale di Buenos Aires, a due passi da Florida, la più importante via pedonale della città, dal quartiere finanziario irto di grattacieli e dal vecchio porto che, un po' come a Genova, Montréal o Cape Town, è ora uno spazio molto accogliente, con una miriade di locali e negozi.

Il tempo di una doccia e di indossare degli indumenti estivi (il termometro segna 27° C), usciamo alla scoperta della capitale argentina.

L'atmosfera che si respira in giro è analoga a quella ferragostana in Italia. E' una domenica di mezza estate, la città è semi-deserta, il traffico quasi inesistente. Sono affollati solo i bellissimi parchi e le piscine pubbliche.

La parte centrale e settentrionale di Buenos Aires è verdissima e disseminata di monumenti e fontane. Nell'architettura, estremamente eterogenea, appare fortissima l'influenza francese, confermando la fama di Buenos Aires come la “Parigi del Sud America”. Il guazzabuglio di stili è impressionante: si alternano edifici moderni (alcuni molto belli, altri del tutto anonimi), a splendide ville e palazzi neo-classici, neo-rinascimentali o in stile Luigi XIII.

Una delle zone più eleganti e prestigiose della città è senz'ombra di dubbio il quartiere Palermo (dal nome dell'italiano che vi possedeva una vasta hacienda nell'Ottocento), dove si trovano quasi tutte le ambasciate della capitale argentina. Le vie laterali sono abbastanza strette, ombreggiate da fitte file di alberi, fra cui spiccano grandi ficus dalle foglie scure e lucide, ed affiancate da raffinate ville e palazzine, bianche o con i mattoni a vista, spesso circondate da giardini curatissimi.

Lasciata Palermo, entriamo in un altro quartiere chic, quello della Recoleta (dal nome dei frati francescani che avevano qui il convento), che ospita l'equivalente porteño del Père Lachaise, il Cementerio de la Recoleta, il più esclusivo della capitale. Accanto al cimitero svetta un monumento storico nazionale, la Iglesia de Nuestra Señora de Pilar, una chiesa dell'epoca coloniale, consacrata nel 1732.

Nel parco intorno al cimitero, dove sorge anche il monumento funebre di Eva Duarte Perón, vediamo passare un giovanotto in compagnia di sette od otto cani, alcuni al guinzaglio, altri liberi: è senz'altro un paseoperros, uno dei caratteristici dog-sitter di Buenos Aires.

Dirigendoci verso Plaza de Mayo, imbocchiamo l'Avenida 9 de Julio, la più imponente arteria della città, larghissima e lunghissima, che fa pensare più ad un'immensa piazza, che ad un semplice viale. Passiamo davanti al celeberrimo Teatro Colón, il più importante teatro lirico del Sud America. Peccato non avere il tempo per visitarne l'interno...

E' difficile trovare le parole per descrivere le nostre emozioni quando arriviamo in Plaza de Mayo... Quanti giovedì della nostra vita abbiamo manifestato idealmente con le Madri e le Nonne di Plaza de Mayo, davanti alla residenza presidenziale, la famosa Casa Rosada! Ci commuove profondamente la scritta “gracias madres”, perché riflette alla perfezione i nostri sentimenti ed il nostro stato d'animo in questo momento...

Nella piazza svuotata dalla canicola, immaginiamo le madri dei desaparecidos camminare in circolo, in silenzio, con le foto dei loro cari scomparsi appese al collo, coi cuori spezzati ma invitte, sorrette da una forza morale ed una dignità straordinarie.

L'atmosfera cambia del tutto mentre attraversiamo il quartiere di San Telmo, a sud della piazza. E' una zona “mista”, bohémienne e popolare, ricca di locali di tango.

Confinante con San Telmo è La Boca, il quartiere tradizionalmente italiano di Buenos Aires, noto per gli edifici coloratissimi del Caminito (dal nome di un tango). E' qui che avverto più acutamente la presenza “in spirito” di mio nonno Carlo: chissà quante volte ha camminato per queste vie, ben prima che diventassero una “trappola per turisti”, dall'aria terribilmente finta.

A due passi dai locali ed i negozietti di souvenir del Caminito, si sprofonda in un grande squallore, mentre si attraversa il porto in disuso, punteggiato di navi e barche ormai ridotte a carcasse arrugginite.

Giunti alla Defensa, la via degli antiquari, iniziamo una bella scarpinata verso l'albergo, ripassando da Plaza de Mayo, per poi percorrere un tratto di Avenida de Mayo, fiancheggiata da numerosi palazzi in stile art nouveau o art déco. Da lì imbocchiamo una via laterale che ci porta a Florida. Sono quasi le 19 e quest'isola pedonale, dove si trovano i più bei negozi della città, quasi deserta nel primo pomeriggio, è ora affollata di porteños e turisti intenti allo shopping o semplicemente a guardare le vetrine.

Dopo una brevissima sosta in hotel, andiamo a cena al Ristorante Las Nazarenas (le staffe che i gauchos attaccano alla sella nei giorni di festa), al 1132 di Reconquista (tel/fax 4312-5559/3691, sito web: www.lasnazarenas.com.ar), dove gustiamo un favoloso filetto alla brace, “innaffiato” da un ottimo Cabernet Sauvignon '97 “Luigi Bosca”.


Lunedì 13 gennaio 2003:


L'ora della sveglia è di quelle disumane, le 3,15! Lasciamo l'albergo che è ancora completamente buio ed in giro non sembra esserci anima viva... a quest'ora la gente “normale” dorme della grossa! Sono circa le 4,30 quando arriviamo all'Aeroparque, il moderno aeroporto nazionale di Buenos Aires. Intorno alle 5 ci imbarchiamo sul volo AR 1890 per Ushuaia, la “città più meridionale del mondo” (è per questo detta “fin del mundo”), a più di 3.000 km. dalla capitale federale.

Atterriamo alle nove. Il cielo è percorso da grandi nuvole, continuamente sospinte qua e là dal vento, caratteristica centrale del clima fueghino (e patagonico in generale). Infatti non si vede un singolo albero dritto! L'aria è fresca, quasi fredda. E' difficile credere che siamo in piena estate! Ma dobbiamo considerarci fortunati, visto che un paio di giorni fa ha nevicato...

Recuperate le valigie, le lasciamo all'hotel Las Lengas, che avrebbe urgente bisogno di una bella ristrutturazione. Prendiamo una scorciatoia in mezzo alla boscaglia che in pochi minuti ci fa arrivare in centro, sull'Avenida San Martín. I piccoli giardini intorno alle case – in genere alte non più di due piani – sono pieni di fiori, soprattutto variopinti lupini. Su di un terrazzo, un dalmata aspetta con ansia il ritorno dei suoi padroni, gli anteriori appoggiati alla balaustra.

Siamo in giro da una quindicina di minuti quando, calato il vento, incomincia a piovere. Dapprima cade una pioggerellina fitta e leggera, ma ben presto intensifica e ci ritroviamo sotto un vero e proprio nubifragio. Per fortuna il nostro pullmino ci aspetta in Avenida Maipù, all'altezza del Molo Turistico. E' piacevole ritrovarsi al caldo ed all'asciutto!

Dopo qualche minuto cessa di piovere e torna a splendere il sole, almeno per un po'... L'adagio secondo il quale, in Terra del Fuoco, si possono vivere, nell'arco di una singola giornata, le quattro stagioni dell'anno, non sembra affatto una boutade!

Ci fermiamo nei pressi dell'Aeroclub, da dove si gode una bella vista della baia, del Canale di Beagle e dei monti che sovrastano Ushuaia, che ha strade ripide come quelle di San Francisco. Tanto ripide da venire chiuse d'inverno, a causa della neve e del ghiaccio.

Il pullmino ci porta sulle alture, passando davanti al Presidio, l'ex-carcere di tristissima memoria, ora Museo Marittimo. Ushuaia è cresciuta molto rapidamente e disordinatamente. Graziosi cottage sono stati costruiti accanto a modestissime casette in legno, poco più che catapecchie. Ma lo scenario dei monti innevati è così suggestivo da far dimenticare l'estrema semplicità della cittadina, duramente colpita dalla chiusura di quasi tutte le fabbriche di assemblaggio di componenti elettroniche, che avevano dato un grande slancio all'economia locale e provocato l'improvviso sviluppo di Ushuaia. Ora i suoi abitanti stanno puntando molto sul turismo, fenomeno relativamente recente in Terra del Fuoco. Un suo importante atout, oltre alle notevolissime bellezze naturali, è quello di trovarsi a soli mille chilometri dall'Antartide. Per Gianluca, il cui più grande sogno è proprio quello di visitare il sesto continente, è terribilmente frustrante essere così vicino e non poterci andare!

Tornati sul lungomare andiamo a visitare il Museo della Fine del Mondo, dove tutti (noi compresi, ça va sans dire, l'effetto pecora funziona sempre!) si fanno religiosamente timbrare il passaporto.

Nella prima sala fa bella mostra di sé la polena della Duchess of Albany, naufragata da queste parti nel 1893. Molto interessante e simpatica la ricostruzione del Primer Argentino, il primo emporio di Ushuaia. L'edificio che lo ospitava, in Avenida San Martín, esiste tuttora.

In un'altra sala sono esposti moltissimi esemplari impagliati della fauna fueghina. Una sezione del museo è dedicata all'Antartide.

Il museo è ubicato al no. 177 di Avenida Maipù ed è aperto dal lunedì al sabato dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 20 in estate, soltanto dalle 16 alle 20 il resto dell'anno.

Usciamo dal museo poco prima dell'una e andiamo a pranzo in un ristorante a pochi passi di distanza, il Tía Elvira, al 349 di Avenida Maipù, dove facciamo la conoscenza di una squisita specialità locale, i granchi (centollas).

Nel pomeriggio il tempo registra un netto peggioramento. Ad un certo punto addirittura nevischia! Siamo così costretti a rimanere in città. Entriamo nei negozi più per ripararci dalla pioggia che per fare acquisti, visto che non c'è granché di interessante da comprare... Esauriti i negozi dell'Avenida San Martín, ci sediamo in un bar per “a nice cup of tea”: con questo tempaccio ci vuole proprio! Prima di rientrare in albergo scarichiamo la posta elettronica in uno dei tanti Locutorios (posti telefonici pubblici, spesso forniti anche di computer).

Ceniamo al Las Lengas. Dalle grandi vetrate della sala da pranzo si scorge la baia, di un grigio metallico sotto il cielo plumbeo. A questa latitudine viene buio molto tardi d'estate, alle 22 è ancora chiaro... A noi che veniamo dalle brevi giornate invernali italiane, fa un effetto strano, come se la giornata non dovesse più avere fine.

Dato che siamo in piedi dalle tre e un quarto del mattino, terminata la cena siamo ben lieti di andare a fare la nanna: domani ci attende il Parco Nazionale della Terra del Fuoco! Speriamo che Giove Pluvio sia più clemente...


Martedì 14 gennaio 2003:


Partiamo di buon'ora alla volta del Parco Nazionale della Terra del Fuoco, un'area protetta di circa 63.000 ettari creata nel 1960, a dieci chilometri da Ushuaia.

Per arrivare al Cañadon del Toro, con una breve sosta alla cascata La Macarena (che sarebbe più giusto chiamare cascatella), prendiamo il “Treno della Fine del Mondo”, un trenino a scartamento ridotto che ripercorre un tratto della famigerata linea ferroviaria che partiva dal Presidio. Fino al 1947, quando il carcere venne chiuso, un certo numero di detenuti, scortati da un folto gruppo di guardie armate, prendevano il treno (ben diverso da quello turistico, ovviamente) fino al bosco dove facevano legna. Legna che serviva a riscaldare non solo la prigione, ma anche le altre case di Ushuaia, all'epoca popolata da poche centinaia di persone.

Andando dal Cañadon del Toro alla Baia Ensenada vediamo una volpe, che sembra seduta lì apposta per dare il benvenuto ai visitatori del Parco!

Il panorama è incantevole. Da una parte i monti, con le candide distese dei ghiacciai. Dall'altra il Canale di Beagle e le sue isole. Le acque del canale qui sono molto tranquille, poiché la baia è protetta da due isole, Redonda ed Estorbo. Più in là, già in territorio cileno, si staglia l'isola Hoste.

Ci inoltriamo nel bosco, al riparo dall'onnipresente vento, per osservare la vegetazione più da vicino. Nel Parco, il bosco subantartico o andino-patagonico è composto da sei specie arboree: la lenga, che d'autunno assume uno splendido colore rosso, il coihue o guinda, sempreverde, il ñire, a foglie caduche, il canelo, che cresce sulle coste del Canale di Beagle, il notro, che arriva fino ai 100 metri di altitudine, ed infine la leña dura, che prospera nel folto sottobosco.

C'è una gran pace: si sentono solo gli uccelli, il fruscio dei rami più alti degli alberi, smossi dal vento e, poco più in basso, quello dell'acqua che viene a lambire dolcemente le rocce.

Molti alberi giacciono a terra, uccisi dai funghi, altri sono tenuti in piedi dalle piante circostanti, creando un'atmosfera un po' spettrale, non priva di fascino.

La purezza dell'aria è confermata dalla rigogliosa presenza del lichene Usnea barbata, popolarmente detto “barba di vecchio”, che non riesce a sopravvivere al pur minimo inquinamento atmosferico.

Risaliti in pullman, dopo qualche chilometro ci fermiamo alla Laguna Verde, dove vediamo dei conigli, che non sono autoctoni ma, al pari dei castori, sono stati introdotti. Qui nidificano i macá (svassi), in mezzo all'acqua per sfuggire ai predatori. Oggi il livello dell'acqua è molto alto, a causa delle abbondanti piogge dei giorni scorsi, e di nidi riusciamo ad intravederne solo uno, insieme al suo occupante.

A proposito di castori, dopo aver percorso per circa 800 metri un sentiero fra gli alberi, arriviamo ad una loro diga, work in progress ma già di dimensioni notevoli. Nel 1946, il Ministero della Marina ebbe la pessima idea di importare alcune coppie di castori dal Canada, con l'obiettivo di farli “crescere e moltiplicare” (e non sono certo stati delusi!), per poi sfruttarne le pelli. Il progetto si è rivelato un disastro su tutta la linea. Il clima fueghino, per quanto rigido, è meno gelido di quello canadese e quindi i castori hanno sviluppato una pelliccia di gran lunga meno folta e morbida di quella degli antenati nord-americani. Hanno potuto moltiplicarsi indisturbati perché, sempre a differenza col Canada, qui non ci sono orsi, loro naturali predatori. Ma nessuno lo ha detto ai castori fueghini, che continuano perciò a costruire le loro dighe, che stanno causando sempre crescenti danni all'ecosistema del Parco, inondando alcune zone e lasciandone altre all'asciutto.

La nostra ultima meta è la Baia Lapataia, dove finisce la Ruta Nacional n. 3. Un cartello ci informa che siamo a 3.063 km. da Buenos Aires e a 17.848 km. dall'Alaska.

Torniamo a Ushuaia nel primo pomeriggio. Abbiamo giusto il tempo per buttar giù un boccone al Barcito Ideal in Avenida San Martín, prima di imbarcarci sul catamarano che ci porterà fino alla Isla de los Lobos (isola delle otarie o leoni marini). Ci sediamo a poppa, all'aperto, a goderci non solo il panorama ma anche questo bel sole, che finalmente splende in un cielo quasi del tutto sereno.

Lasciati il Molo Turistico ed Ushuaia dietro di noi, navighiamo nella baia, nell'ormai famigliare cornice di monti e ghiacciai, prima di entrare nel canale vero e proprio. Sul battello c'è un'atmosfera allegra, un po' da gita scolastica, si ride e si chiacchiera. Come non essere di buon umore in momenti come questo?

Dopo oltre un'ora di navigazione, si incominciano a vedere, sugli isolotti e gli scogli di cui è disseminato il Canale di Beagle, folte colonie di uccelli (cormorani e gabbiani) e di otarie, pigramente sdraiate al sole. Ci muoviamo per il battello, alla ricerca della visuale migliore, scattando un bel numero di foto. E' molto divertente stare sulla prua del catamarano, guardando l'acqua scorrere veloce sotto di noi, in mezzo agli spruzzi sollevati dal vento...

Al Faro des Eclaireurs (non siamo riusciti a scoprire l'origine del nome) facciamo dietro-front e torniamo al Molo Turistico di Ushuaia. Per Gianluca è un vero supplizio di Tantalo guardare le navi da crociera in partenza per l'Antartide! So close and yet so far...


Mercoledì 15 gennaio 2003:


La giornata, per gli standard fueghini, è addirittura radiosa! Ne siamo ben lieti, avendo deciso di prendere la seggiovia che porta ai piedi del ghiacciaio Martial. Da lassù, il panorama su Ushuaia ed il Canale di Beagle è davvero mozzafiato! L'acqua è blu scuro, leggermente increspata dal vento che, oggi, soffia meno forte. Sopra di noi, il cielo è di un azzurro intenso, limpido, le rare nuvole sono alte e sfilacciate, bianchissime. Il ghiacciaio è di un candore accecante, messo ancor più in risalto dal verde scuro degli alberi, le lengas che crescono fino ai 600 metri sul livello del mare.

La temperatura è assai gradevole e rende meno faticosa la salita. Peccato non poter stare qui tutto il giorno... Ma nel pomeriggio ci aspetta il volo per El Calafate da dove, nei prossimi giorni, visiteremo il Parco Nazionale dei Ghiacciai.

A El Calafate (la località prende il nome da una pianta tipica della regione) alloggiamo al delizioso Hotel El Quijote (Gregores 1155, tel. 0902/91017-54), mentre vi sconsigliamo vivamente il ristorante dove abbiamo cenato la prima sera, il Don Diego de la Noche (è il nome di un fiore): si mangia maluccio ed il servizio è mostruosamente lento!


Giovedì 16 gennaio 2003:


Alle 8 ci dirigiamo verso Puerto Bandera, il punto di partenza per le escursioni in battello sul Lago Argentino. Un po' prima delle 9 ci imbarchiamo sul grande catamarano ALM, che è già quasi tutto pieno: ci sono molti argentini, oltre a turisti tedeschi, francesi, giapponesi ed italiani. Per tutta la giornata, gli argentini berranno ettolitri di mate, l'infuso d'erbe che non è semplicemente la loro bevanda nazionale, ma rappresenta un vero e proprio rituale sociale.

Qualche minuto dopo le 9, il catamarano si stacca dal molo e in men che non si dica, passato lo stretto detto Boca del Diablo e inoltrandoci nel Brazo Norte, ci ritroviamo in un paesaggio fiabesco, circondati da montagne, iceberg che paiono immobili sulla superficie lattiginosa del lago, grandi foreste... E tutto questo a 185 m. sul livello del mare!

L'UNESCO ha dichiarato il Parque Nacional Los Glaciares “Patrimonio Mondiale dell'Umanità”, riconoscendo così la sua unicità.

Quante volte abbiamo visto questi luoghi in fotografia, nei documentari, per quanto tempo abbiamo atteso questi istanti! Ci sentiamo quasi increduli, ora che possiamo ammirare questo fantastico scenario con i nostri occhi...

L'ALM gira a sinistra e penetra nel Brazo Spegazzini e mentre si avvicina al ghiacciaio Seco, saliamo sul ponte superiore. Il Seco è uno dei ghiacciai più piccoli del Parco: sembra un rivolo di latte tra gli scuri pendii di due montagne.

Passiamo a pochi metri da un grosso iceberg azzurro pallido. Gianluca mi spiega che il colore del ghiaccio è dettato da due fattori principali: dalla sua compattezza e dalla luce. Ne vedremo di tutte le sfumature, dal bianco sporco al blu elettrico, dall'azzurro al blu cobalto.

Dopo il Seco, è la volta dello Spegazzini, dal nome del botanico Carlos Spegazzini, che fu il primo a studiare la flora locale. Si vedono a stento le cime delle montagne alle spalle del ghiacciaio, velate da nuvole basse.

Lo Spegazzini è uno dei ghiacciai più alti del Parco e – al pari del Perito Moreno – non dà segni di arretrare, anzi sembra espandersi di anno in anno.

Dopo aver sostato per parecchi minuti di fronte allo Spegazzini, il catamarano torna indietro, percorre un tratto del Brazo Upsala, per poi girare nuovamente a sinistra verso il Lago Onelli (dal nome dell'assistente di Francisco Moreno), dove sbarcheremo ad osservare altri tre ghiacciai: il ghiacciaio omonimo, il Bolado e l'Agassiz (lo scienziato svizzero padre della glaciologia).

Il posto è bellissimo, con il sentiero che, attraverso il bosco, porta al lago disseminato di iceberg e circondato dai monti e dai ghiacciai. Peccato che, data la folla, sembri di essere a Rimini d'estate!

Esploriamo con tutta calma i dintorni, per poi tornare sul battello nel primo pomeriggio. Ritorniamo nel Brazo Upsala, fino a giungere davanti all'omonimo ghiacciaio, il più esteso del Parco. Deve il suo nome all'Università della città svedese che sponsorizzò i primi studi di glaciologia agli inizi del '900. E' in realtà un insieme di ghiacciai, per una superficie totale di circa 1.000 kmq. Nell'ultimo decennio ha subito un arretramento notevole. Rimane tuttavia uno spettacolo impressionante! E' finalmente uscito il sole ed il ghiaccio presenta un'affascinante gamma di colori, riflettendo l'azzurro del cielo ed il turchese pallido del lago. Intorno a noi, le esclamazioni di meraviglia si sprecano (comprese le nostre, naturalmente!). Anche le macchine fotografiche e le videocamere lavorano a ritmi serrati.

Purtroppo è già arrivato il momento di fare ritorno a Puerto Bandera, dove arriviamo intorno alle 20.

Ceniamo a base di agnello allo spiedo nell'elegante ristorante della Posada Los Alamos di El Calafate (noi, vestiti da “Gruppo Vacanze Piemonte”, facciamo un po' macchia!), per poi tornare – godendoci l'aria fresca e tranquilla della sera – al nostro albergo.


Venerdì 17 gennaio 2003:


Meno male che non siamo superstiziosi! Anzi, siamo certi che ci attende una bellissima giornata, incentrata sulla visita al ghiacciaio Perito Moreno, forse l'high point del nostro viaggio argentino.

Partiamo bello presto e dopo circa 80 km. - per gran parte di strada sterrata ma in ottime condizioni – all'uscita da una curva, eccolo! Ci fermiamo in una piazzuola panoramica, ad assaporare da lontano questa meraviglia.

Quando arriviamo alle passerelle sono da poco passate le 9 e c'è ancora poca gente in giro, per fortuna. Di tanto in tanto, pezzi del ghiacciaio si staccano, cadendo con gran fragore in acqua o sul ghiaccio sottostante. Percorriamo lentamente i 1.800 metri di passerelle, fermandoci ogni pochi passi ad osservare il Perito Moreno da quante più angolazioni possibili. Anche qui ci prende la stessa sensazione di incredulità e di stupore provata il giorno prima. Si fa strada dentro di noi una profonda contentezza, come da bambini la mattina di Natale.

Ancora una volta, il contrasto cromatico è stupefacente. L'immensa massa di ghiaccio, fra la volta azzurra del cielo ed il verde-azzurro indefinibile e cangiante del lago, li riflette entrambi. E poi le tinte della vegetazione tutt'intorno, i lengas, le piante di calafate, le piccole orchidee rosse, il giallo squillante delle bocche-di-leone, il viola delicato delle campanule, il bianco delle margheritine...

Su una panchina qualcuno – chiaramente un italiano/a – ha scritto “M'illumino d'immenso”: le parole di Ungaretti sintetizzano perfettamente le nostre emozioni, quasi fossero state scritte qui ed ora.

Alle 12,30 saliamo su un piccolo battello, che ci porterà a qualche decina di metri dal fronte del Perito Moreno. Siamo solo una decina a bordo. Il vento pare essere il respiro del ghiacciaio, questa cosa viva ed in continua evoluzione. E' segnato da lunghissime fenditure, che sembrano illuminate da un neon blu al loro interno e che creano un ulteriore, drammatico effetto cromatico.

Quando il battello si rimette in movimento verso Puerto Moreno – da dove siamo partiti – il vento agita la bandiera argentina, le cui strisce celesti quasi si confondono con i colori del lago, del cielo e del ghiaccio.

Abbiamo appena lasciato il Perito Moreno dietro di noi, quando avvistiamo un condor. Ha l'aria di essere perfettamente a suo agio, in questo universo di acqua e ghiacci eterni, di foreste e di montagne, le grandi ali spalancate a “catturare” le correnti. Subito dopo ne vediamo altri tre, alti contro il sole, spiccano nerissimi contro il cielo sereno.

All'ingresso di El Calafate, fra i paddock dei cavalli, ecco un ibis che esce dai cespugli, per sparire un attimo più tardi.

Recuperati i bagagli in albergo, andiamo in aeroporto, dove prenderemo il volo AR 2809 delle 16,51 per Trelew.

L'aereo non ha quasi il tempo di arrivare in quota, che già comincia la discesa su Trelew (città di Lewis), dove atterriamo intorno alle 18,30. Da lì, in pullman, andiamo a Puerto Madryn, stazione balneare frequentatissima dagli argentini e porta d'ingresso della Península Valdés, la grande riserva naturale che visiteremo nei prossimi giorni.

Puerto Madryn è stata così battezzata in onore di Sir Jones Parry, barone di Madryn, che condusse le trattative col governo argentino in vista della creazione della Colonia Gallese del Chubut e che venne qui nel 1863.


Sabato 18 gennaio 2003:


Lasciamo l'hotel-residence Villa Piren di Puerto Madryn alle otto, diretti a Puerto Pirámides, l'unico centro abitato della Península Valdés. La scelta del nome è stata, direi, “obbligata”: le scogliere, ricchissime di fossili, hanno qui forme piramidali.

Lungo la RP 2 il paesaggio è monotono, quasi uniformemente piatto. Il terreno è coperto da erbusti spinosi e da ciuffi d'erba ingiallita dal sole e dal vento. Ai nostri occhi inesperti, la vegetazione appare tutta uguale, mentre invece sono presenti oltre cento specie di piante diverse!

La Península Valdés è quasi del tutto disabitata. Solo di rado c'è una fattoria. Vediamo però molti animali. Oltre alle onnipresenti pecore, vivono qui guanachi, mara, armadilli, nonché svariate specie di uccelli, fra le quali i ñandú e le graziose martineta. Sulle coste si trovano grandi colonie di leoni ed elefanti marini e di cormorani.

A Puerto Pirámides, indossati i giubbotti salvagente (che siano un filino un overkill?), saliamo su un piccolo battello, col quale visiteremo la riserva naturale lungo la costa settentrionale del Golfo Nuevo. Da giugno a dicembre, questo è il posto ideale per gli avvistamenti delle balene (balena franca australe). Noi, quindi, siamo fuori tempo massimo, purtroppo. Dovremo “accontentarci” delle otarie e dei cormorani. Forse, se siamo fortunati, incontreremo dei delfini (nota a posteriori: non lo siamo stati).

Sulla barca mi stupisco di me stessa. Di norma soffro il mal di mare a livelli pazzeschi (per darvi un indizio, mi sono sentita di schifo fra le Aran e Galway). Invece ora mi sento splendidamente, in piedi sulla prua, il vento sul viso bagnato dagli spruzzi salati.

Ben presto ci avviciniamo agli scogli dove stanno sdraiate le otarie. Una ha appena partorito! Più in là ci sono i cormorani, alcuni dei quali in fila indiana, come disciplinati scolari...

Rientrati a Puerto Pirámides, pranziamo al “Punta Ballena”: squisite l'insalata di mare e la cazuela de mariscos (zuppa di crostacei e frutti di mare).

Nel primo pomeriggio proseguiamo per il Faro di Punta Delgada, dove pernotteremo. Fra Puerto Pirámides e Punta Delgada si estendono due saline, non più sfruttate dagli anni Sessanta: Salinas Grandes (35 kmq) e Salinas Chicas (18 kmq), a 42 metri sotto il livello del mare.

Il Faro di Punta Delgada, un tempo, era una scuola per guardiani di fari, ora è un albergo-ristorante.

Il posto è davvero molto suggestivo, in mezzo al nulla, a strapiombo sull'Atlantico, con il vento estivo che soffia impetuoso, alzando vortici di polvere.

La maggiore attrattiva di Punta Delgada, però, consiste nell'impressionante colonia di elefanti marini sulla spiaggia sottostante il faro.

Per la prima volta in vita nostra, ci ritroviamo a camminare ad un paio di metri da questi cetacei, che se ne stanno immobili, indeboliti dal lungo digiuno, intenti alla muta della pelle. Si spostano solo con l'avanzare della marea. Mancano all'appello i maschi adulti, che in estate rimangono in mare aperto. Qui ci sono le femmine ed i maschi giovani. La spiaggia è disseminata di brandelli di pelle, oltre che di grosse e bianchissime ostriche fossili. Abbandonano pure le conchiglie fossili.

Quando gli altri visitatori si allontanano, Gianluca ed io rimaniamo in silenzio, a goderci tutto questo: gli elefanti marini, stretti gli uni contro gli altri, i mille colori e riflessi dell'oceano, l'azzurro ora pallido ora più intenso del cielo, l'incessante sibilo del vento, lo stridio dei gabbiani. Quanto ci sembra lontana l'Europa, ancora più lontana della semplice distanza geografica...


Domenica 19 gennaio 2003:


Stamane l'intensità del vento ha assunto proporzioni da tromba d'aria! Appena usciti all'aperto, gli occhi, il naso, le orecchie ci si riempiono di sabbia, la sentiamo scricchiolare sotto i denti. Persino i gabbiani sono in difficoltà!

La nostra prima meta, oggi, è Caleta Valdés, ad una quarantina di chilometri a nord, lungo la RP 47. Siamo i primi visitatori ad arrivare e se non fosse per la violenza del vento (sposta Gianluca, che non è precisamente un fuscello!) si starebbe così bene... Caleta Valdés è un'insenatura protetta da una striscia di terra ghiaiosa lunga 32 km. circa ed ospita un'importante colonia di leoni ed elefanti marini. D'estate vi arrivano anche delfini ed orche e d'inverno le balene. Abbiamo visto alcuni pinguini, sulla spiaggia, e delle martineta lungo il sentiero.

Dove troviamo una colonia significativamente più nutrita di leoni ed elefanti marini è a Punta Norte che, come suggerisce il nome, rappresenta l'estremità settentrionale della Península Valdés. La spiaggia è affollatissima, soprattutto di leoni marini, poiché questa è la loro stagione delle nascite. Due gabbiani, infatti, stanno “banchettando” su una placenta. I nerissimi “leoncini” ispirano – come tutti i cuccioli – una tenerezza infinita.

A Punta Norte c'è inoltre un piccolissimo ma interessante museo (l'ingresso è libero), incentrato sui mammiferi marini (non l'avreste mai detto, eh?).

Ritorniamo al Faro di Punta Delgada per il pranzo per poi far ritorno a Puerto Madryn, dove alloggeremo nuovamente all'hotel-residence Villa Piren. Non vediamo l'ora di farci la doccia, per toglierci di dosso alcuni chili di sabbia! Ma prima di rientrare in città, visitiamo il museo del Centro de Interpretación, dove le cose più interessanti, fra i reperti esposti, sono uno scheletro di balena franca australe ed una foto satellitare della Península Valdés.

Dopo la sosta in albergo, tornati ad avere un aspetto relativamente civile, facciamo un giro per Puerto Madryn fino all'ora di cena. Fra i tanti ristoranti del centro, optiamo per Antigua Patagonia, scelta che si rivela molto felice. Si trova in Mitre y Roque Saenz Peña, tel. 45-8738.

Completamente rintronati a causa del vento fortissimo (le raffiche hanno raggiunto i 130 km/h!), andiamo a dormire presto, per essere freschi e riposati per la visita alla colonia di pinguini di Magellano, a Punta Tombo, domattina...


Lunedì 20 gennaio 2003:


Alle 8,30 puntiamo verso sud, destinazione la Reserva Natural de Punta Tombo, creata nel 1979 col contributo delle Società Zoologiche di New York e Francoforte e dell'Associazione Geografica della Patagonia. Ospita un'immensa colonia di pinguini magellanici che, da settembre a marzo, approdano qui per riprodursi. Secondo alcune stime, nidificano qui più di 500.000 pinguini!

E' un luogo bellissimo. Il vento è finalmente calato. Il cielo è terso, per la prima volta da quando siamo in Patagonia, l'oceano “sfoggia” le sue più profonde tonalità di verde e di blu.

Sotto i cespugli, anche a notevole distanza dalla spiaggia, si celano i nidi dei pinguini, che tendono a tornare sempre a quello lasciato l'anno precedente. La selezione naturale è spietata: solo la metà dei pulcini riesce a sopravvivere. I pinguini di pochi mesi sono inconfondibili. Non hanno ancora il piumaggio permanente, bianco e nero, ma sono ricoperti da una lanugine grigia.

C'è un via-vai incredibile fra la spiaggia e i nidi. Stiamo ben attenti a non tagliare la strada ai pinguini, cosa che li scombussola non poco, e facciamo grande attenzione a dove mettiamo i piedi. Ci viene spontaneo chiederci se siamo noi ad osservare i pinguini, o sono loro che osservano noi!

Dopo aver mangiato un boccone alla tavola calda ad un chilometro dalla Riserva, proseguiamo per Gaiman (“punta di pietra” in araucano), un angolino di Galles nel Chubut. Ci fermiamo davanti alla prima scuola e poi alla prima casa costruite dai coloni gallesi alla fine dell'Ottocento. Fa una certa impressione vedere scritte in gaelico in Patagonia!

La maggior attrazione di Gaiman, soprattutto per i golosi, sono le sue case da tè. Quando arriviamo nei pressi della più grande, la Ty Caerdydd, subito fuori dal centro abitato, ci sentiamo paracadutati in un altro mondo, rispetto a quello patagonico! La casa da tè è circondata da un bellissimo e rigoglioso giardino all'inglese (i gallesi non me ne vogliano!), pieno di rose che stanno cominciando a sfiorire. Accanto alla porta d'ingresso, una targa ricorda, con malcelato orgoglio, la visita della Principessa del Galles, Lady Diana Spencer.

Il tè è – naturalmente – squisito, così come le torte ed i tramezzini che ci vengono serviti in abbondanza. E' un high tea sontuoso, un vero banchetto.

Finiamo degnamente la giornata con la visita, a Trelew, del Museo Paleontologico Egidio Feruglio (paleontologo e geologo udinese), inaugurato nel 1999. E' una meraviglia, sia dal punto di vista dei reperti, che da quello dell'allestimento museale. E' in Av. Fontana, di fronte all'Università, ed è aperto dal lunedì al venerdì dalle 8,30 alle 12,30 e dalle 13,30 alle 20, il sabato dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 21, la domenica ed i festivi dalle 14 alle 21. Tel. 42-0012, www.mef.org.ar.

All'aeroporto apprendiamo, fra il giubilo generale, che il volo AR 2817, delle 20.15, per Buenos Aires Aeroparque, dal 16 gennaio non è più diretto, ma fa scalo a Comodoro Rivadavia, a sud di Trelew!!! Forse è per farci stare un po' più a lungo in Patagonia... Grazie al cielo sereno e al fatto che voliamo abbastanza bassi, possiamo ammirare il paesaggio sottostante, nella morbida luce del tramonto.

Approdiamo all'Hotel Elevage di Buenos Aires a mezzanotte e mezza. Fra soltanto nove ore saremo nuovamente all'Aeroparque, per volare ad Iguazú. Be', è già un miglioramento rispetto alle 5,25 del volo per Ushuaia...


Martedì 21 gennaio 2003:


Secondo il programma originale, avremmo dovuto restare due notti ad Iguazú. Ma – avendo Aerolineas Argentinas pensato bene di cancellare il volo Buenos Aires-Roma del 23 gennaio – siamo costretti a ripartire la sera del 22. Risultato: addio alla visita alle rovine delle missioni spagnole e al giro in gommone (sigh!).


Nel giro di poco più di dodici ore, siamo passati dall'aridità della steppa patagonica del Chubut, all'opulenza della foresta pluviale nella quale sono incastonate le Cascate di Iguazú. Siamo nella provincia di Misiones, nel nord-est argentino, al confine con Brasile e Paraguay.

Subito prima dell'atterraggio nel piccolo aeroporto di Puerto Iguazú, si diradano le nubi ed ecco apparire il fiume e le cascate, parzialmente velate dallo spray. La nostra emozione è – naturalmente – fortissima.

Una volta atterrati ritiriamo in breve tempo le valigie, che poi lasciamo nella nostra camera all'Hotel Cataratas.

Oggi pomeriggio andiamo a vedere le cascate dal lato brasiliano, un must per averne una visione d'insieme.

Col tempo (meteorologico) ci è andata di lusso. Ieri c'è stato un mega-temporale, che ha fatto abbassare un po' sia la temperatura che il tasso di umidità. La giornata è serena, il sole mette ancor più in risalto gli smaglianti colori della vegetazione sub-tropicale.

Passata la frontiera, ci fermiamo a fare i biglietti d'ingresso al Parque Nacional do Iguaçu. Il pullmino ci lascia poi in prossimità dell'Hotel das Cataratas, dove comincia il sentiero panoramico. Ad accoglierci è una piccola folla di coatimundi, adorabili “parenti” dei procioni. Nonostante il divieto di dar da mangiare agli animali, molti turisti li hanno fatti diventare “caramelle-dipendenti” e quindi arrivano en masse all'arrivo di ogni nuovo gruppo. Ci ricordano gli scoiattoli obesotti del Bryce Canyon!

Scattate le prime foto, cominciamo a scendere verso le cascate. Qui, al contrario del lato argentino, si rimane quasi sempre ad una notevole distanza dalle cascate, ma il colpo d'occhio è a dir poco spettacolare! Un paio di dati: la loro larghezza complessiva è di circa 3.000 metri e sono composte da 275 salti.

Camminiamo in mezzo al verde, nelle orecchie il rombo incessante dell'acqua. Tutto intorno a noi è un tripudio di piante e fiori. Crescono palme, lapachos, palos rosas, guapoy, canne di bambù grosse come piccoli tronchi d'albero, orchidee...

Alla fine della discesa, una passerella consente di avvicinarsi al Salto Santa María, fino a trovarsi immersi negli spruzzi d'acqua... e negli arcobaleni. Con questo caldo è una sensazione deliziosa! In pochissimi minuti siamo da strizzare, ma non ci vorrà molto per tornare asciutti.

Infatti, tempo un'oretta siamo appena appena umidi. Prima di tornare in Argentina, Gianluca ed io – insieme ad un'altra coppia – facciamo un giro, purtroppo assai breve, in elicottero, con la Helisul (occhio: non accettano le carte di credito, ma gli euro – oltre naturalmente ai dollari – sì; la tariffa è di 60 $ a testa, per sette minuti di volo). “Sospesi” nell'azzurro, vediamo scorrere sotto di noi l'immensa distesa verde scuro della foresta. Mentre seguiamo il corso del fiume, le cascate sono ancora una mera nube di spray all'orizzonte. Le sorvoliamo un paio di minuti più tardi e rimaniamo ancora una volta impressionati dalle loro dimensioni, dagli strapiombi vertiginosi, dalla potenza della massa d'acqua che precipita in un fragore assordante...

Dopo tre giri al di sopra delle cascate, rientriamo alla base e poi in Argentina.

Stavolta la doccia la facciamo più banalmente in albergo! La visita al lato brasiliano delle cascate ci ha messo appetito e facciamo allegramente onore all'ottimo buffet del ristorante del Cataratas.


Mercoledì 22 gennaio 2003:


Arriviamo all'ingresso del Parque Nacional Iguazú intorno alle 8,30 e prendiamo immediatamente il trenino fino al capolinea, dove inizia la passerella che conduce al salto più famoso e suggestivo, la Garganta del Diablo (gola del diavolo).

Se possibile, c'è ancora più gente del giorno prima sul lato brasiliano. Procediamo in fila indiana, attraversando un tratto del fiume Iguazú molto tranquillo, solo il fragore sempre più forte dell'acqua fa intuire la presenza di una cascata. E che cascata! Una formidabile massa liquida che precipita per 80 metri, su tre lati, perennemente avvolta da una coltre di spruzzi e vapore.

Sul balcone panoramico ci facciamo un'altra bella doccia, ormai è diventata un'abitudine!

Decisamente più umidi che all'andata, torniamo indietro per riprendere il trenino fino alla stazione intermedia, la Estación Cataratas. Percorse alcune decine di metri, raggiungiamo il Circuito Superiore. Ai lati del sentiero, contro il verde brillante della fittissima vegetazione, spicca il bianco latteo di delicate orchidee dai pelati lunghi e stretti.

Ci dirigiamo, come prima meta, al salto più lontano, quello di San Martín, davanti all'isola omonima, per poi fermarci davanti al Salto Mbigua, al Bernabé Mendez e infine al Salto Bossetti. Ogni prospettiva sembra più affascinante di quella precedente, in un'esaltante escalation di bellezza. Ciò che forse colpisce di più è l'armonia dei vari componenti, che vanno a formare un insieme meraviglioso, perfetto.

Superata la Torre Mirador (torre belvedere), scendiamo le scalette che conducono al Circuito Inferiore, sentieri e passerelle nel folto della foresta che offrono altri splendidi colpi d'occhio sulle cascate.

Su uno dei rami più alti di un albero si staglia, inconfondibile, il profilo di un tucano e poi di un altro e di un altro ancora... Poco più in là, alcuni macachi saltano senza sosta tra gli alberi. Le farfalle, qui nel Parco Nazionale, sono numerosissime, ci svolazzano intorno, ci rallegrano coi loro colori vivaci e ci incantano con la grazia del loro volo.

Rivediamo il Salto Bassetti da una diversa angolazione, poi il Dos Hermanas, fino ad arrivare giù in basso, al Salto Alvar Nuñes.

Facciamo un nuovo rifornimento di acqua minerale allo snack bar “Dos Hermanas” (a sud dell'omonimo salto): abbiamo proprio bisogno di reidratarci un po'!

Da lì andiamo all'Hotel Sheraton, dove sono state lasciate in deposito le nostre valigie. Dopo una rinfrescata veloce, abbiamo ancora un'ora e mezza a disposizione, prima di partire per l'aeroporto. Decidiamo quindi di approfittare del buffet dello Sheraton, che ha un'aria assai invitante, per non parlare della vista sulle cascate attraverso le grandi vetrate del ristorante. E' tutto squisito. Al momento di pagare il conto, prevediamo la classica “stangata”! Invece siamo piacevolmente sorpresi: sono solo dieci dollari a testa, bevande – e vista sulle cascate – comprese.

Ora comincia la parte meno divertente del viaggio: ci vorranno più di 24 ore per giungere a casa!

Alle 15 ci imbarchiamo sul volo AR 1735 per l'Aeroparque di Buenos Aires. Una volta atterrati e recuperati i bagagli, ci trasferiamo all'Aeroporto Internazionale “Ezeiza”, dove “bivacchiamo”, leggendo e mangiucchiando, fino alle 22,30. Quando ci imbarchiamo sull'Airbus A 340 delle Aerolineas, che decolla puntualmente un'ora dopo. Destinazione: Roma Fiumicino.


Giovedì 23 gennaio 2003:


Atterriamo, sotto una pioggia battente, alle 16,30. Arrivati al gate del volo Air One per Milano Linate delle 18, apprendiamo che, a causa della fitta nebbia in Val Padana, partiremo con un'ora di ritardo. Visto che siamo in giro da così poco...

Alle 19 finalmente iniziamo l'ultima tratta del nostro lungo viaggio di ritorno. Arrivati a Linate, la nebbia, per fortuna, si è parecchio diradata. Recuperati i bagagli per l'ennesima volta, noleggiamo un'auto e alle 22,30 siamo a casa, nell'astigiano.


Carla Polastro